La protesta dei Presidi di Medicina

Le rivendicazioni contro il decreto sono giuste, l’università non può ragionare solo in termini di assistenza.

 

 

La protesta dei presidi delle facoltà di Medicina può lasciare perplessi, ma è una protesta giusta. Nonostante quanto sembri, infatti, essi non difendono indifendibili privilegi di singoli professori, ma il diritto-dovere delle facoltà di Medicina e Chirurgia a formare medici, odontoiatri, infermieri, operatori sanitari secondo i criteri propri della formazione universitaria. I presidi sono delusi dalla filosofia generale di un decreto legislativo che, volendo definire l'organizzazione degli ospedali in cui la facoltà di Medicina deve formare i futuri medici, non contiene nemmeno una volta la parola studente. E questo non può stare bene al Paese, perché non tutela gli interessi né dei futuri medici né dei futuri malati.

Trasformare uno studente liceale in un medico è un lavoro complesso: si tratta di portarlo a pensare scientificamente, ma anche a convivere con la malattia, la morte, la speranza, la managerialità, le scelte economiche ed etiche. A ciò sono destinate le facoltà di Medicina e Chirurgia. Per una buona formazione servono ospedali dedicati prioritariamente alla funzione formativa, dotati di un’organizzazione agile, capace di adattarsi ai nuovi sviluppi della medicina, garantendo cosi' una formazione costantemente aggiornata. Ospedali per curare la gente, ma soprattutto per "imparare" e "insegnare" a curarla e per "fare" ed "insegnare a fare" ricerca biomedica. Ospedali diversi, come accade in tutto il mondo: diversi, semplicemente perché hanno funzioni aggiuntive e diverse rispetto agli altri ospedali.

In questo decreto, la tutela esasperata delle pur giuste esigenze della Sanità ha prevalso sulle esigenze della formazione universitaria ingabbiando quest'ultima, con linguaggio burocratico, in norme, regole, comitati (ancora!) e privandola della flessibilità necessaria per creare i medici che la società di oggi e di domani richiedono. Si chiede dunque che il decreto consenta, nel rispetto di norme concordate e di controlli severi, ai professori e ai ricercatori della facoltà di Medicina di fare il proprio lavoro di docenti, di scienziati e di medici, assistendo malati ma essendo al contempo al servizio degli studenti e della ricerca.

Uno Stato moderno deve esigere che i circa 40 ospedali (sugli oltre 1300 del Paese) nei quali opera la facoltà di Medicina siano organizzati e gestiti in maniera da garantire i più alti standard formativi per tutta la durata della formazione.

Dobbiamo difendere il diritto dei cittadini a che la formazione dei futuri medici non avvenga "subordinatamente" alle esigenze dell'amministrazione e della politica sanitaria. La gente comune si renda conto che molti docenti universitari sono oggi seriamente impegnati nel rinnovamento e adeguamento agli standard europei, con uno spirito che forse meriterebbe maggiore considerazione e credito. È giusto reprimere con rigore abusi, eliminare privilegi, tagliare rami secchi. Ma non è giusto far seccare anche i rami verdi, perché chi paga sono, oggi, i migliori tra i nostri docenti (che rischiamo di perdere a favore di altre strutture, specie private), gli studenti e le loro famiglie e, domani, i malati. Dal momento che non è in discussione la necessità di regolamentazione, quanto la filosofia del decreto, credo che un ripensamento sia necessario. Occorre emendare profondamente il testo, così che esso acquisti aderenza alle esigenze della formazione universitaria e non rappresenti un'altra occasione perduta. Se manca il tempo o la serenità, allora il Parlamento conceda una proroga: in breve tempo, sedimentata la reazione emotiva, è possibile riunire intorno ad un tavolo persone capaci di dare al decreto quello spessore politico, morale e culturale cui la coscienza di un Paese civile non può rinunciare in un campo così serio come la formazione degli operatori sanitari e la salute dei cittadini

Marco Pistis

Andrea Lobina